Decidiamo di andare in Egitto nel 2011, anno in cui alcuni paesi arabi del bacino mediterraneo stavano vivendo la propria Primavera Araba.
In quei giorni sembrava che il peggio fosse passato e il Paese fosse pronto ad un nuovo inizio. Nelle strade del Cairo e in piazza Tahrir si incontravano ancora sparuti gruppetti di manifestanti; i segni del passaggio della rivolta erano evidenti più che mai, le cicatrici dei giorni più bui ancora doloranti, ma si respirava aria di cambiamento e di speranza.
La presenza dei nostri zaini e delle nostre macchine fotografiche in giro per la Capitale era per gli Egiziani un timido segnale che, forse, qualcosa stava tornando alla normalità e non mancava occasione in cui qualcuno ce lo facesse notare. Le manifestazioni di calore e gioia nel vedere noi turisti erano continue, sotto forma di un breve applauso, un sorriso, una foto, uno sguardo silenzioso di approvazione.
Tra tutti, indimenticabile lo sguardo regalatomi da una donna attraverso il finestrino di un bus, mentre teneva in braccio il suo bambino, il bel viso incorniciato da uno jijab color sabbia e quel sorriso accennato. Me lo porto dentro come il più bel souvenir di questo viaggio quel suo messaggio di benvenuto, un’intesa al femminile di due mondi paralleli che si incrociano per un attimo.
Il Cairo è una città immensa – la più popolosa di tutto il continente africano – pittoresca, polverosa e caotica all’inverosimile, proprio come me la immaginavo.
Quello che invece non immaginavo è la bellezza mozzafiato dei paesaggi che si susseguono lungo il dolce scorrere del Nilo. Da Luxor fino al Tempio di Philae – a sud di Assuan – rocce levigate, isolotti, palme altissime, un deserto di sabbia fine e dorata, regalano agli occhi uno scenario che difficilmente dimenticherò.
Un Egitto straordinario, che ancora una volta non mi aspettavo, che sorprende ed incanta.
Un Egitto che si lascia guardare in silenzio, perché tanto è inutile commentare.
Ancora una volta è la natura a parlare.
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